#CoopUPBO: chiude la II edizione, con uno sguardo al futuro

Lo scorso 1 marzo CoopUP Bologna ha chiuso la seconda edizione del percorso di incubazione e networking per idee, persone e cooperative promosso da Confcooperative Bologna, con il supporto di Kilowatt, Irecoop e Emil Banca, svoltosi da ottobre a dicembre 2016.

L’evento conclusivo è stato un momento per tirare le fila di quello che è stato fatto, discutere sul modello di incubazione e supporto alle startup con esperti e professionisti del settore, conoscere alcune idee di impresa che hanno partecipato al percorso e guardare al futuro.

Ma andiamo con ordine.

I saluti iniziali sono affidati a Matteo Lepore [Assessore Economia e Promozione della città, Comune di Bologna] che ha ringraziato i promotori del progetto: da un lato Confcooperative Bologna e Emil Banca per la volontà di sostenere l’impiego dei giovani e per lavorare sul territorio attraverso le comunità che lo animano; dall’altro Kilowatt per sostenere gli stessi obiettivi all’interno de Le Serre dei Giardini Margherita uno spazio che il Comune di Bologna ha voluto fosse votato all’innovazione e al supporto dell’imprenditorialità.

Daniele Passini [Presidente Confcooperative Bologna] e Alberto Montanari [Emil Banca Credito Cooperativo] hanno entrambi rinnovato la volontà di sostenere l’occupazione dei giovani, sia attraverso un modello economico che non incentivi la competizione ma auspichi la collaborazione (modello cooperativo), sia offrendo strumenti che supportano le imprese nascenti.

A Gaspare Caliri [Kilowatt] è affidato il compito di tirare le somme di ciò che è stato fatto in questa ultima edizione di CoopUP Bologna. Come lui stesso afferma, però, “più che un bilancio si tratta di un rilancio sulle attività che vorremmo fare nei prossimi anni”. Partiamo dai numeri: 41 idee di impresa hanno risposto all call, 23 delle quali hanno concluso il percorso – di cui 13 soggetti già esistenti; proseguiamo con la visione che sta dietro al percorso:

CoopUP BO sperimenta la cosiddetta incubazione di ecosistema: quello che ci interessa è lavorare sulla collaborazione e non sulla competizione. Vogliamo sviluppare un modello basato sulla community, che coniughi il concetto di incubazione con il community organising, cioè sviluppare pratiche condivise che facciano emergere il vissuto delle persone che fanno parte della comunità, per lavorare sulle relazioni e in ottica di dinamica tribale: non c’è un capo, ma ogni soggetto – a seconda delle proprie capacità e competenze – si prende cura della comunità. Secondo questo modello, possiamo meglio redistribuire il valore creato, non solo economico, ma di relazione e talenti. Il nostro obiettivo è quello di promuovere un immaginario diverso per chi fa impresa, che superi il modello americano di incubazione che abbiamo adottato, ma che non corrisponde al mondo europeo e italiano.

Quali sono gli obiettivi per il futuro di CoopUP?

  • innovazione aperta: creare un ambiente in cui imprese già costituite e realtà nascenti si incontrano, si ibridano, collaborano e instaurano una relazione capace di produrre lavoro e innovazione, allo stesso tempo.
  • misurazione dell’impatto nel medio-lungo periodo: pensare alla rendicontazione del percorso come a un’attività da svolgere non nel breve periodo, ma in un intervallo temporale più lungo.

In linea con gli obiettivi di CoopUP Bologna è l’intervento di Alessandro Gerosa [phd student dell’Università degli Studi di Milano] che ha raccontato la ricerca condotta con Adam Arvidsson dalla quale è nato l’articolo Start-UP in Italia: limiti e potenzialità pubblicato su CheFare il 7 febbraio 2017. Il loro lavoro è partito da un’esigenza specifica: la necessità di analizzare il “sistema startup italiano” e la capacità di queste di produrre occupazione e sviluppo.

Dalla ricerca, condotta sull’intera popolazione di startup con data di inizio attività 2011 e dati dal 2011 al 2014, emerge che l’85%  al 4° anno ha meno di 5 dipendenti; il 95% meno di 10: dunque solo il 5% entra sul mercato con più di 10 dipendenti. il 50% delle startup al 4° anno dichiara meno di 80.000 euro di fatturato e il 50% ha gli utili in perdita; di queste, il 90% sotto i 20.000 euro.

Dai dati, emerge che se l’obiettivo è creare occupazione stabile, il metodo utilizzato non sembra essere il migliore.

Il «Sistema Start-Up Italiano» dimostra, in altre parole, di sprecare moltissime risorse  ed energie: l’ambito «scaling-up» rimane per quasi tutti un miraggio, che si trovano invece ad impiegare le proprie energie e risorse senza successo.

Alessandro ci mostra altri dati:

  • messe a confronto con un campione di PMI, solo il 5% delle startup, all’anno della supposta maturità (5°), raggiunge per valore di produzione e EBITDA (misura “ripulita” degli utili) la media delle PMI analizzate;
  • Milano, la prima provincia italiana per numero di startup, mostra performance  migliori e ricavi in progressivo aumento rispetto alle altre province [anche la provincia di Bologna ha buoni risultati, ma con numeri inferiori]. Torino e Roma, la seconda e terza provincia, hanno performance inferiori alla media. Perciò la concentrazione di nuove idee di impresa in una provincia non è correlata al successo, ma dipende da altre ragioni strutturali non indagate. La sola afferenza a un territorio non è un parametro valido per dire che il sistema funziona. Parlare di ecosistema italiano delle startup è fuoriviante: meglio pensare a ecosistemi locali, legati al territorio di appartenenza.
  • in Italia, sembra predominare il cosiddetto modello spray and pray, secondo cui solo un numero estremamente esiguo di startup, le «migliori», riesce ad affermarsi, a danno di tutte le restanti. Oltre a questo, se è facile trovare spazio in un incubatore e un seed capital per partire, è molto difficile trovare venture capitalists che dispongano dei fondi necessari per permettere di ‘scalare’ verso il successo (lo «scaling-up»). Quelle che ce la fanno, è perché hanno trovato capitali all’estero.

Il sistema, per come è ora, sembra avere molte falle: difficoltà a scalare, mancanza di venture capitalist, concentrazione in specifici territori. E’ necessario dunque ripensare il modello e svilupparne uno che sia maggiormente adatto al contesto italiano e che guardi al lungo periodo.

L’intervento seguente va proprio in questa direzione: trovare un modello di sviluppo per le startup alternativo. Può il modello cooperativo dare una risposta? Sembra di sì.

Giulio Stumpo ci ha raccontato come è nata  SMartIt, una cooperativa in forma di impresa sociale inserita in un network europeo (SMart) che semplifica e tutela il lavoro dei professionisti dei settori artistico, culturale e creativo.

SMart è nata in Belgio nel 1998 come associazione per esigenze pratiche legate a contratti lavorativi in ambito artistico; gradualmente la community è cresciuta e i membri – tutti operanti in campo artistico/culturale – hanno deciso di istituire un fondo per “autopagarsi” le prestazioni, senza dover aspettare i committenti (che solitamente hanno tempistiche piuttosto lunghe). SMart conta oggi 8 sedi in diverse nazioni europee (oltre al Belgio, Germania, Spagna, Italia, Francia, Ungheria, Paesi Bassi, Austria e Svezia). E’ una iniziativa partita dal basso, per risolvere un problema condiviso e per rispondere a dei diritti fondamentali in modo autonomo, come quello del lavoro. E’, come la definisce Giulio, una value based community, una community basata sulla condivisione di alcuni valori che dimostra che, mettendosi insieme, è possibile garantirsi dei diritti, secondo la logica cooperativa per cui il lavoratore è parte dell’azienda.

Dopo questa prima parte più teorica, è arrivato il momento “caldo” della giornata: la presentazione di alcune delle startup del percorso. Non era possibile raccontare tutte e 23 le idee di impresa: ne sono state quindi selezionate 5 in base a tre parametri: 1) stato di avanzamento dell’idea, 2) contributo e partecipazione alla community di CoopUp, online e offline; 3) livello di rappresentatività della tematica trattata, all’interno del gruppo di Coopup. Eccole qui:

  • Checkpoint charly> un laboratorio condiviso da 18 artisti, che non si limitano a una produzione personale ma generano occasioni reciproche di ricerca, produzione, scambio. Una community che si apre verso la città.
  • Leila Bologna> prende spunto da Leila Berlin; è una biblioteca degli oggetti, dove i membri possono prendere in prestito o lasciare oggetti di varia natura, spesso sottoutilizzati. L’idea di base è quella di passare dalla logica dell’accumulo a quella della condivisione. Leila è uno spazio di relazione, un luogo di incontro e scambio, all’interno del quale i rivenditori possono testare  i prodotti prima di lanciarli sul mercato, le PMI e aziende sviluppare progetti di welfare aziendale.
  • Reuse with love > una associazione con oltre 1.000 volontarie che racchiude nelle parole collaborazione, riuso, relazione la propria filosofia. Attive da anni nell’ambito della raccolta fondi per progetti sociali – i loro mercatini vintage sono famosissimi a Bologna – hanno un progetto ambizioso: realizzare uno spazio in cui sviluppare corsi di formazione su professioni decadute, ma che iniziano a essere richieste sul mercato, come la sarta o la ricamatrice, e avviare laboratori di riuso e recupero rivolti ai bambini e ragazzi.
  • Sinplex> percorsi di gamification, coinvolgimento, facilitazione esperienziale per musei e altri luoghi culturali. Offrono consulenze su misura tramite ricerca e progettazione centrata sull’utente o sulla comunità di riferimento. Tra i progetti realizzati Cerca la ricerca in occasione dell’edizione bolognese della Notte dei Ricercatori 2016.
  • Abitando s’impara> propone un nuovo stile abitativo e  di vita basato su case- piattaforma in cui sperimentare le nuove pratiche dell’economia collaborativa e nuove modalità di welfare di comunità.  Il progetto si propone di trovare un immobile in cui iniziare a sperimentare nuovi modelli abitativi, che diventi anche un aggregatore di esperienza microimprenditoriali ad impatto sociale che si creano grazie all’economia della collaborazione.

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Hanno chiuso la giornata Letizia Piangerelli di CoopUPIn, progetto che si propone di portare la cultura dell’open innovation nel mondo cooperativo, mettendo in connessione neonate idee di impresa con attività già avviate. CoopUpIn vuole rispondere ai bisogni di innovazione  di cooperative attraverso l’intelligenza colletiva e le idee emerse anche da Coop Up, per creare un ecosistema, fare in modo che le diverse realtà – quelle già costituite e quelle nascenti – si contaminino e creino innovazione e occupazione, diffondendo il valore creato.

Infine, Matteo Bettoli [Confcooperative Nazionale] ha concluso con una panoramica sul progetto CoopUP: gli spazi attivi della rete CoopUP in Italia sono 19: l’ultimo ha inaugurato a Ragusa venerdì 3 marzo. La call aperta a Reggio Emilia ha raccolto 21 idee imprenditoriali, quella di Siracusa 10 ed è appena stata lanciata la call a Roma. Insomma, il modello si sta diffondendo e sta creando un circolo virtuoso.

Da parte nostra, possiamo solo concludere che questa non è la fine, piuttosto l’inizio di un nuovo modello di fare impresa.

Ci vediamo alla prossima edizione!

Per informazioni: coopupbo@confcooperative.it

Di seguito trovate le slides dei relatori e le presentazioni delle idee di impresa.

 

 

 

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